Metteresti nel tuo CV il football americano?
Se per caso vi capitasse di fare colloqui di lavoro in America, per assumere giovani laureati o meno, notereste che è d’abitudine mettere al primo posto nel curriculum vitae le esperienze sportive a livello agonistico. Strana cosa, si potrebbe pensare: come può essere la carriera sportiva più importante delle esperienze lavorative o dell’università frequentata? A quanto pare uno sport praticato a livello agonistico può darti tante chance quante una buona università in certe realtà lavorative! Immaginiamo un giovane ragazzo texano che, uscito dall’università di business administration (economia e commercio), sta cercando lavoro: che cosa sarà più interessante per chi lo deve assumere, il fatto che abbia giocato nella squadra del college di football americano come linebacker sviluppando capacità come la gestione della squadra di difesa, la capacità di leggere le mosse dell’avversario, l’intuito sportivo, la responsabilità, il senso del dovere oppure due nozioni, peraltro ovviamente semplificate, riguardo al funzionamento dei mercati finanziari?
Non dico che studiare sia inutile, altroché: è ovvio che certe mansioni non si possono ricoprire senza certe conoscenze, ma è anche ovvio che le nozioni non sono di per sé sufficienti per affrontare in maniera adeguata determinati problemi, che possono richiedere skills che di certo non si imparano sul banco di scuola. Questo avviene perché formazione scolastica e sport sono in realtà due modi diversi per cercare di fare la stessa cosa: vincere la partita quotidiana della vita.
Ma funziona, ad oggi, allo stesso modo in Italia? Ne ho i miei dubbi. Forse non siamo ancora abbastanza maturi a livello di mercato del lavoro, o forse noi personalmente non diamo troppa importanza a come il nostro carattere venga forgiato sul campo da gioco. Chiediamo seriamente a noi stessi: siamo le stesse persone di prima da quando abbiamo conosciuto il football americano? Affrontiamo i problemi allo stesso modo, con la stessa forza d’impatto? Ci approcciamo ai nostri amici più cari, ai colleghi di squadra e non con la stessa scarsa fiducia che prima riservavamo a chiunque? Se la risposta è no allora davvero siete cresciuti col, nel e grazie al football americano: personalmente è proprio questo il tipo di persona che vorrei di fianco a me ogni giorno al lavoro.
E’ veramente troppo frequente in Italia pensare che si abbia bisogno delle raccomandazioni per poter ottenere certe posizioni. Non voglio entrare nel merito del problema se questa sia o meno una pratica diffusa, ma voglio invece farvi riflettere sull’approccio mentale insito nel meccanismo della “spintarella”, perché è proprio quello che noi sul campo cerchiamo ogni giorno di sconfiggere. E’ la causa principale che ha permesso in certe partite alla nostra difesa dei Rams di sfaldarsi e lasciar segnare i ricevitori. Mi spiego: quando un difensore vede correre dall’altra parte del campo un running back, non deve stare fermo, bighellonare, camminare e guardarlo correre, ma deve comunque precipitarsi più veloce che può in quella direzione per un eventuale tackle, cercando di portare la difesa quindi in superiorità numerica sul ricevitore e fermarlo. Per quanto possa essere bravo, difatti, potrà saltarne uno, massimo due di difensori, ma non certo di più: questo meccanismo è detto gain tackle. Il gain tackle non avviene quando molto semplicemente in difesa pensiamo: “è dall’altra parte, non è necessario che mi sbatta per correre, lo ferma il mio compagno, lasciamo fare agli altri” ed è il modo perfetto per perdere la partita. E’ il meccanismo dello scarico di responsabilità, del lasciare fare agli altri qualcosa per cui non abbiamo voglia di lottare e per cui molto probabilmente non siamo interessati a lottare. Allo stesso modo nella vita d’ogni giorno lo scarico di responsabilità ci fa risultare perdenti, verso noi stessi e verso gli altri, nel lungo periodo. Chi per prendere un posto di lavoro si fa raccomandare dall’amico dell’amico sta a tutti gli effetti scaricandosi della responsabilità di capire se è veramente adatto per quel lavoro, e soprattutto se può piacergli o meno quel lavoro. E’ una strategia che non paga alla lunga e che danneggia noi stessi e gli altri. Chi non si affida a questi magheggi otterrà, ne sono certo, quello che vuole o prima o poi: se non al primo giro, forse al secondo o al terzo. Tocca a noi ora cercare di cambiare le carte in tavola. Non abbiate paura di parlare ad un colloquio di questo sport, se siete di fronte ad una persona intelligente questa capirà chi siete e quanto forti siete molto prima che non leggendo il cv, se non ne sarà colpita allora tanto meglio, andatevene: in una azienda in cui chi assume è incapace di guardare dentro le persone, sarà probabilmente pieno di persone vuote e sciocche.
Il Pensiero di HP
di Dario D’Ambrosio